C'è un nemico insidioso che poche persone conoscono o che imparano a riconoscere tardivamente in occasione della prima frattura. È la osteoporosi. Qualche decennio fa non se ne sarebbe neppure parlato perchè la si considerava non altro che il fisiologico, normale, inevitabile modo d’invecchiare dell’osso.
E dato che la vecchiaia non si può curare, neppure l’osteoporosi meritava trattamento. Oggi dal momento che la vita media della popolazione anziana si è alquanto allungata l’osteoporosi sta finalmente uscendo allo scoperto come causa di grave invalidità e mortalità, in particolare nella donna in post-menopausa, con elevati costi sia sanitari che sociali.
La mortalità da frattura del femore è del 5% nel periodo immediatamente successivo all’evento e del 15-25% ad un anno. Nel 20% dei casi si ha la perdita definitiva della capacità di camminare autonomamente e solo il 30-40% dei soggetti torna alle condizioni precedenti la frattura. Pertanto l’osteoporosi è da considerare una malattia sistemica dell’apparato scheletrico, caratterizzata da alterazioni della struttura ossea con conseguente riduzione della resistenza al carico meccanico ed aumentato rischio di frattura per traumi minimi di vertebre, femore, omero, polso.
Le due forme di osteoporosi: primitiva e secondaria
Vi sono due forme principali di osteoporosi: una “primitiva”, che colpisce le donne in post-menopausa o gli anziani, e una “secondaria”, che invece può interessare soggetti di qualsiasi età, influenzando negativamente la salute scheletrica. A testimonianza della importanza di questa malattia l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) da diversi anni ha inserito l’osteoporosi “tra le patologie di grande rilevanza sociale e tra le grandi sfide dei prossimi decenni”, mettendola così in qualche modo, sullo stesso piano delle malattie cardiovascolari (infarto, ictus) e delle neoplasie.
Gli esperti dell’OMS hanno, infatti, rilevato che nel corso della vita, circa il 40% della popolazione, in prevalenza dopo i 65 anni, incorre in una frattura di femore, vertebra e/o polso. Si stima che in Italia l’osteoporosi colpisca circa 5.000.000 di persone, di cui l’80% sono donne in post-menopausa.
Secondo i dati ISTAT relativi all’anno 2020, l’8,1% della popolazione italiana (il 13,5% delle femmine e il 2,3% dei maschi) ha dichiarato di essere affetto da osteoporosi, con una prevalenza che aumenta progressivamente con l’avanzare dell’età, in particolare nelle donne dopo i 55 anni, fino a raggiungere il 32,2% oltre i 74 anni (il 47% delle femmine e il 10,3% dei maschi).
Perché così poca attenzione verso questa malattia? Per la scarsa consapevolezza e conoscenza del problema. Basti infatti pensare che dietro un “banale” mal di schiena, in una donna su otto dopo i cinquant’anni, si nasconde una frattura vertebrale da osteoporosi. Per questa sottovalutazione si ritiene che il 60% delle fratture vertebrali siano asintomatiche in quanto evidenziate solamente durante esami radiologici effettuati per altra causa.
Un altro motivo è quello di considerare tutte le fratture come traumatiche senza distinguere quelle secondarie a trauma attivo da quelle da minimo trauma o atraumatiche o da fragilità, che caratterizzano le fratture da osteoporosi.
L’osteoporosi è da considerare una malattia sistemica dell’apparato scheletrico, caratterizzata da alterazioni della struttura ossea.
La Diagnosi
L’esame di riferimento per la diagnosi di osteoporosi è la densitometria ossea, o mineralometria ossea computerizzata, indicata comunemente con la sigla MOC, che permette di misurare esattamente la densità minerale ossea (Bone Mineral Density, BMD), cioè la quantità (espressa in g/m2) di minerali presenti nello scheletro in toto o in alcuni distretti scheletrici particolarmente soggetti alla perdita di massa ossea.
A volte la MOC viene chiamata anche DEXA (da Dual Energy X ray Absorbtiometry); in realtà queste due sigle indicano la tecnica con la quale viene eseguito l’esame. La MOC è un esame semplice, rapido (non richiede più di 5 minuti) e assolutamente indolore. Prevede l’impiego dei raggi X, ma in dosi bassissime (di gran lunga inferiori a quelle di una radiografia e infinitamente più basse rispetto a una TAC), per cui si tratta di un esame sicuro, che si può ripetere tranquillamente nel tempo.
Dott. Cristiano Maria Francucci